Un decennio per i biocarburanti di seconda generazione

04/01/2009 - Nicola Ventura

    I biocombustibili di seconda generazione rappresentano grandi speranze per il futuro, ma ancora non sono commerciabili e nonostante siano stati fatti progressi restano ancora troppo costosi. A dirlo è la GBEP, cioè la Partnership globale sulle bioenergie che nella sua newsletter analizza il rapporto dell’Agenzia internazionale dell’energia (IEA) sui progressi in atto nella ricerca tecnologica per le bioenergie, dal titolo “Dalla prima alla seconda generazione di tecnologie per i biocombustibili. Una panoramica delle attuali attività industriali e di ricerca e sviluppo” (vedi sintesi in allegato).

    I biocarburanti di “seconda generazione” sono quei combustibili ottenuti tramite la lavorazione di materiale lignocellulosico, invece di quello derivato da olii e cereali.
    Secondo gli esperti, se si procederà ad estrarre le sostanze dagli alberi senza danneggiare il suolo e le radici si potranno mantenere realmente intatte le foreste e si potrà garantire lo sviluppo sostenibile delle fonti rinnovabili. Alcuni paesi, come Germania, Regno Unito e Stati Uniti, stanno sperimentando questi biocarburanti di seconda generazione anche se l’ostacolo maggiore è rappresentato dalle ingenti spese per costruire bioraffinerie adeguate.

    La Partnership globale sulle bioenergie evidenzia che attualmente, secondo il rapporto Aie, la quota dei biocombustibili di seconda generazione è inferiore allo 0,1% della produzione complessiva di biocombustibili e i primi impianti commerciali probabilmente saranno realizzati attorno al 2012-15. Secondo lo studio della IEA, infatti, è improbabile che i biocombustibili di seconda generazione diventino pienamente commerciabili nell’arco di un decennio. Se ciò avverrà, l’Agenzia stima che, entro il 2030, potranno rappresentare una quota del 5-7% dei carburanti per il trasporto usati nel mondo e raggiungere il 25% entro il 2050.

    La Gbep mette, quindi, in risalto il fatto che esistono due strade per realizzare la seconda generazione di biocarburanti: quella biochimica, vale a dire produrre etanolo ligneo-cellulosico dall’idrolisi enzimatica di biomasse ricavate da rifiuti, graminacee come il panico verga, alberi a breve rotazione, e quella termochimica, ossia combustibile liquido ottenuto da biomasse tramite gassificazione e sintesi Fischer-Tropsch per costruire catene di idrocarburi. Entrambi questi metodi di conversione, precisa Gbep, sono giunti al livello dimostrativo, ma permangono al momento difficoltà tecniche ed economiche fondamentali.

    “I biocombustibili di seconda generazione, ha detto Lew Fulton, specialista dell’Energia per il trasporto della IEA e redattore del rapporto, sono depositari di grandi speranze, ma non sono ancora commerciabili”. Infatti, aggiunge, “sono stati realizzati progressi tecnici, ma restano costosi e non sono stati messi alla prova su scala commerciale. Inoltre, la concorrenza per l’uso dei terreni rappresenta tuttora una questione aperta”.
    Per Fulton “data la natura rischiosa degli investimenti in questo campo, il sostegno dei governi sarà cruciale e dovrà rientrare in una strategia complessiva per le bioenergie”. Inoltre, aggiunge, “sarà necessaria anche una migliore comprensione dei feedstock, della loro distribuzione geografica e dei loro costi. Sarà anche importante osservare gli sviluppi delle politiche degli Usa e dell’Europa”.

    Un rapporto, quello della IEA, che ridimensiona fortemente le speranze immediate di molti sostenitori dei carburanti vegetali più sostenibili. Una prospettiva che dovrebbe far meditare sugli obiettivi dell’Unione europea al 2020 (10%) per questo comparto che dovranno per forza basarsi su biocombustibili per molti versi non sempre propriamente ecologici.

    Fonte: http://qualenergia.it